La Siria e la trappola israeliana


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Alessandro Iacobellis


Dopo diverse settimane (se non mesi) di stallo sia sul piano politico e diplomatico sia su quello militare, la crisi siriana ha subito negli ultimi giorni un’accelerazione sotto ogni punto di vista. Il 30 aprile il segretario generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, con un discorso trasmesso in diretta da Al Manar (televisione ufficiale del movimento sciita libanese) non solo ha ribadito il sostegno del Partito di Dio ad Assad e al governo baathista di Damasco, ma ha anche annunciato un possibile maggior coinvolgimento del gruppo nelle vicende siriane.
Va sottolineato come il discorso di Nasrallah sia giunto dopo che da diverso tempo le televisioni panarabe (la qatariota Al Jazeera ma soprattutto in questo caso la saudita Al Arabiya) hanno enfatizzato le morti di alcuni combattenti sciiti libanesi in territorio siriano per mano dei ribelli. Hezbollah da parte sua non ha mai negato che alcuni dei suoi uomini fossero in Siria al fianco dell’Esercito Arabo Siriano, del resto esiste un patto di difesa militare reciproca sottoscritto da Iran, Siria e Hezbollah che prevede la possibilità di un intervento diretto in difesa degli alleati. Le cifre che le emittenti satellitari panarabe fornivano (provenienti dai soliti cyber-attivisti che da più di due anni tentano di manipolare l’opinione pubblica internazionale sulla questione siriana) erano però evidentemente esagerate. Addirittura si è arrivati a parlare di 40 combattenti uccisi in un singolo scontro a fuoco, nella zona calda di Qusayr, presso il confine tra Libano e Siria, da ormai un anno sotto il controllo dei ribelli. Hezbollah ha ammesso da tempo un proprio coinvolgimento nelle azioni militari in corso presso Qusayr e i villaggi limitrofi; la zona costituisce infatti un corridoio strategico vitale per il passaggio di armi verso la valle della Bekaa libanese. Nei dintorni di Qusayr sorgono inoltre almeno una decina di villaggi abitati in maggioranza da sciiti libanesi trasferitisi oltre il confine nel corso delle varie sanguinose guerre degli scorsi decenni. Il coinvolgimento di Hezbollah a Qusayr è quindi non solo dettato da pragmatismo ma anche da precise ragioni etiche, difendere la propria gente. Nell’area i gruppi ribelli vedono tra le proprie fila la presenza di alcune unità di militari disertori che si identificano sotto la sigla del sedicente “Esercito Libero Siriano” (per la maggior parte attivi dentro Qusayr) ma anche di numerose bande salafite (più nelle campagne adiacenti) il cui obiettivo principale è proprio quello di ripulire l’area da ogni presenza sciita. Nello specifico si segnala soprattutto la presenza di miliziani legati a Fatah al Islam, il gruppo di ispirazione qaedista già protagonista nel 2007 degli scontri con l’esercito libanese all’interno del campo profughi palestinese di Nahr al Bared: un’accozzaglia di veterani reduci delle varie guerre della jihad globalizzata, dall’Afghanistan degli anni ’80 fino all’Iraq dei giorni nostri.
L’altro fronte di Hezbollah in Siria è invece presso Damasco, ed è motivato da ragioni religiose. Nella cittadina di Sayyida Zainab sorge l’omonima moschea meta di pellegrinaggio per gli sciiti di tutto il mondo: il mausoleo dedicato alla figlia di Alì e Fatimah, Zainab appunto, tratta prigioniera in seguito al massacro di Karbala del 680 d. C.. Con l’invasione delle bande salafite, ogni luogo di culto sciita è esposto ad altissimo rischio (basti ricordare quanto successe in Iraq nel 2006 alla moschea dorata Al Askariya di Samarra). Già nel 2009 un’autobomba colpì nei pressi, uccidendo 17 pellegrini. Hezbollah,ponendosi a protezione di Sayyida Zainab, non solo difende uno dei più importanti luoghi di culto dell’Islam sciita, ma cerca anche di prevenire che un eventuale attacco attizzi ancora di più la tensione settaria tra sunniti e sciiti che ormai quotidianamente miete vittime nel mondo arabo fino ad Afghanistan e Pakistan.
Il coinvolgimento di Hezbollah (almeno fino pochi giorni fa) non era certamente tenuto nascosto dal partito, che anzi lo rivendicava con orgoglio anche di fronte ai propri avversari in patria, tra i quali il leader delle Forze Libanesi Samir Geagea, il Future Movement di Saad Hariri e tutta la coalizione filo-saudita e filo-occidentale dell’Alleanza del 14 Marzo, ma anche lo sceicco di Sidone Ahmad al Assir, la cui popolarità tra i salafiti libanesi è in ascesa (e che proprio pochi giorni prima aveva chiamato i suoi seguaci alla jihad a Qusayr, recandosi lui stesso sul campo di battaglia per qualche giorno). L’attività diHezbollah però non era tanto di diretto intervento in prima linea, quanto piuttosto di addestramento e di invio di consiglieri militari: soprattutto per i Comitati Popolari e le Forze di Difesa Nazionale, corpi di autodifesa di civili armati organizzati per supportare l’esercito siriano.
Il discorso di Nasrallah, però, ha fatto intendere una possibile escalation con un impegno più profondo nel conflitto in atto. Non a caso proprio in questi stessi giorni le forze siriane registrano grandi progressi proprio nella zona di Qusayr. Cominciata ad inizio aprile, l’offensiva ha permesso alle forze del presidente Assad di riprendere il controllo della collina strategica di Tal al Nabi Mando e di diversi villaggi e cittadine tra cui Abel, Radwaniyeh, Burhaniya e Saqraja. Da parte loro i ribelli hanno risposto col lancio di razzi in territorio libanese, uccidendo alcuni civili. Il progetto è di circondare e riprendersi la città di Qusayr, che a sua volta aprirebbe la strada alla bonifica di Homs e dell’entroterra circostante. Nello stesso tempo in cui avanzava a Qusayr, l’Esercito Arabo Siriano riprendeva anche il controllo del quartiere strategico di Wadi al Sayeh nella città di Homs. Una conquista fondamentale, che permette di isolare le linee di rifornimento delle bande armate in città e di isolare le zone della città vecchia e di Khalidiya, le due roccaforti degli insorti. L’Esercito Arabo Siriano pare quindi avere riconquistato una posizione di forza e aver ripreso l’iniziativa. Una serie di successi che ad inizio aprile aveva anche permesso di ripulire dalla presenza di terroristi anche l’area ad est di Al Ghouta nelle vicinanze di Damasco, vera e propria chiave di volta per mantenere il controllo sulla capitale.
Le Forze Armate di Damasco quindi paiono all’improvviso capaci di potere vincere il conflitto nel medio-lungo termine. Un’eventualità su cui i governi nemici, sia quelli occidentali che quelli della regione (il Consiglio di Cooperazione del Golfo e Israele, entrambi seppure per ragioni differenti ansiosi di vedere la fine della Repubblica Araba Siriana quale perno dell’Asse della Resistenza) non avevano certamente scommesso. Gli uni desideravano la fine di un governo amico dell’Iran, gli altri contano di vedere continuare un conflitto permanente tra le parti in causa che si indeboliscano le une con le altre. Per questo le recenti vittorie di Assad hanno destato scalpore. E per questo in contemporanea ai successi sul campo di Assad è tornata in azione la macchina propagandistica che negli scorsi mesi pareva essersi inceppata. L’apice è stato raggiunto dalle voci di un attacco con armi chimiche che secondo USA, Gran Bretagna e Israele l’esercito siriano avrebbe compiuto in più di un’occasione, sia nei pressi di Damasco che presso Aleppo. Attacco su cui le agenzie di intelligence dei tre Paesi avrebbero prove incontrovertibili (quindi da ciò si deduce che i suddetti Paesi avrebbero agenti sul campo in Siria a raccogliere prove, fatto negato categoricamente fino ad oggi…). Si arriva pertanto alla conferenza stampa di Obama (il 30 aprile, poche ore prima del discorso di Nasrallah). Una recita kafkiana da parte dell’inquilino della Casa Bianca, che già in diverse occasioni aveva dichiarato pubblicamente che l’impiego di armi chimiche avrebbe costituito una “red line” in vista di un impegno più diretto di Washington nella questione siriana. Obama afferma di sapere con certezza che qualcuno ha usato armi chimiche in Siria, ma che sul chi, come e quando non si può dire nulla di preciso. Si riaffaccia dunque secondo fonti anonime governative la possibilità di sostenere con maggior vigore le fazioni ribelli considerate più vicine agli interessi statunitensi, dovendo fare i conti però con la dura realtà del campo: sul terreno infatti chi combatte con maggior determinazione e chi conquista più terreno nella galassia delle forze ribelli non sono i militari disertori o le fazioni “moderate” tanto coccolate dall’Occidente, dalla Turchia e dal Qatar, bensì i gruppi salafiti come Jabhat al Nusra (che ha giurato fedeltà ad al Zawahiri e che ha conquistato il capoluogo di Raqqa nella Siria settentrionale e ampie porzioni di territorio presso Deir Ezzor e il confine con l’Iraq) e Ahrar al Sham. Inoltre, come se non bastassero i grattacapi per Obama, proprio in questi stessi giorni si è riacceso come non accadeva da anni il conflitto irakeno, con le forze tribali sunnite tornate a schierarsi apertamente contro il governo dello sciita al Maliki. Le due crisi sono strettamente legate, come dimostra la contiguità tra le tribù della Siria orientale e quelle della provincia irakena di Anbar (quella di Falluja e Ramadi), divise da un confine più teorico che reale.
A questo punto non poteva non entrare in gioco l’altro grande attore regionale, Israele. Evidentemente preoccupato dall’attivismo di Hezbollah sul fronte siriano e memore della brutta avventura vissuta nell’estate del 2006, Netanyahu ha individuato una finestra di opportunità per poter colpire in territorio siriano per ben due volte nel giro di pochi giorni. L’aviazione sionista ha infatti bombardato nella notte tra il 2 e il 3 maggio e poi tra il 4 e il 5 (solo il secondo “strike” è stato ammesso pubblicamente da Damasco). Gli obiettivi non sono chiari: chi parla di un convoglio di missili iraniani diretti a Hezbollah(come se Hezbollah ne avesse bisogno…), chi di un sito per ricerche militari (lo stesso governo siriano), chi ancora del quartier generale della Quarta divisione corazzata, la punta di diamante dell’esercito di Damasco, guidata da Maher Assad, fratello del presidente. Non è la prima volta che Israele colpisce in Siria (l’aveva già fatto nel 2007, sul centro per la ricerca nucleare di Al Kibar, e già nel corso dell’attuale conflitto, il 30 gennaio), ma condurre due raid a distanza talmente ravvicinata è una novità strategica importante. Certamente la Siria, il cui esercito non ha le stesse capacità tecniche di Tsahal,avrebbe difficoltà  rispondere adeguatamente alle provocazioni israeliane; ed è forse proprio quello che gli stessi israeliani e le altre forze ostili a Damasco (in primis l’Arabia Saudita) vorrebbero, un allargamento del conflitto per impedire che Assad riesca gradualmente a riprendersi il controllo sul Paese come pareva potesse essere in grado di fare.

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